- Introduzione
-
Ricostruzione storica
- “...si sta ch’è un incanto nel quarantasei...”
- Un paese distrutto
- E le donne non stanno a guardare...
- Testimonianze di una giornata epocale per la storia italiana
- L’ingresso delle donne elette a Montecitorio
- Così i giornali dell’epoca
- L’Italia tra dinamismo e staticità
- Dalle macerie della guerra alla speranza di un Italia nuova
- Siamo donne, oltre alle gambe c'è di più
Topolino Amaranto
“Oggi la benzina è rincarata
è l'estate del quarantasei
un litro vale un chilo d'insalata,
ma chi ci rinuncia? A piedi chi va? L'auto: che comodità!
Sulla Topolino amaranto…
dai, siedimi accanto, che adesso si va.
Se le lascio sciolta on po' la briglia
mi sembra un'Aprilia rivali non ha.
E stringe i denti la bionda
si sente una fionda e abbozza un sorriso con la fifa che c'è in lei
ma sulla Topolino amaranto
si sta ch'è un incanto nel quarantasei…
Bionda, non guardar dal finestrino
che c'è un paesaggio che non va:
è appena finito il temporale e sei case su dieci sono andate giù;
meglio che tu apri la capotte e con i tuoi occhioni guardi in su
béviti sto cielo azzurro e alto che sembra di smalto e corre con noi.
Sulla Topolino amaranto…
Topolino…Topolino”…
Paolo Conte (1975)
La Fiat 500, popolarmente chiamata "Topolino", è senza dubbio fra le automobili italiane più famose, anche se gli eventi e le circostanze che hanno portato all'ideazione di questo modello sono molto meno conosciuti.
Tutto ebbe inizio da un'idea di Benito Mussolini .
Nel 1930, il Duce aveva convocato il senatore del Regno d'Italia Giovanni Agnelli per informarlo della "inderogabile necessità" di motorizzare gli italiani con una vettura economica che non superasse il costo di 5 000 Lire .
Un'idea di grande impatto propagandistico che, non appena eletto cancelliere, Adolf Hitler si affrettò a copiare convocando Ferdinand Porsche ed intimandogli di realizzare un'automobile dal costo non superiore ai 1 000 marchi; quella che sarebbe divenuta famosa in Italia con il nome di "Maggiolino".
Nel dopoguerra, la Topolino sarà rimpiazzata nel 1956 dalla 600 e dalla nuova 500 nel 1957: le due auto che avrebbero motorizzato il paese dalla rinascita agli anni del boom economico.
“...si sta ch’è un incanto nel quarantasei...”
In questa bella canzone di Paolo Conte non ci sono riferimenti alla politica o alla storia, ma i suoi versi ci consegnano un quadro preciso dello stato emotivo degli italiani del periodo post bellico. Di quell’ansia di speranza e di rinascita che porterà il nostro Paese in soli tre anni, dal 1945 al 1948, alla sua prodigiosa ricostruzione.
Fuori dal finestrino della topolino amaranto, canta Paolo Conte, “c’è un paesaggio che non va: è appena finito il temporale (la guerra) e sei case su dieci sono andate giù.”
Ai lati della strada, infatti, non si può fare a meno di notare i danni prodotti dalla guerra.
Eppure il Paese si rimbocca le maniche, si dà da fare per ripartire.
Anche lo sport, con il Giro d’Italia fermato dalla guerra, contribuisce alla ripresa, seppure tra le macerie dei bombardamenti e i lavori di ricostruzione. In una Europa ancora sconvolta dagli orrori della guerra, dove nemmeno il Tour potè essere organizzato, fu una specie di miracolo che la corsa avesse potuto avere luogo. E’ un Giro d’Italia autarchico, ma è un Giro d’Italia.
Addirittura, Leo Turrini lo definì “il Giro d’Italia più bello di sempre”, quello del duello che entusiasmò le folle divise tra il tifo per Fausto Coppi e per Gino Bartali, i due campioni che avrebbero riscattato, con le loro mitiche imprese, l’Italia in campo internazionale.
I corridori attraversano un paese in rovina: si corre in mezzo alle macerie dei bombardamenti, si attraversano fiumi sui ponti di barche, le strade sono disastrate. Eppure, quando passa il Giro, la gente si ferma ad applaudire. Gli operai dei cantieri sospendono i lavori e salutano. Il Giro porta una ventata di freschezza, di normalità e di speranza.
Un paese distrutto
Foto F. Patellani
Quei danni sono sotto gli occhi di tutti, la guerra totale ha invaso ogni spazio:
distrutti gli impianti industriali e gli acquedotti, dissestate e fuori uso le linee ferroviarie,
le città ridotte a un cumulo di macerie, case diroccate ovunque...
Nel 1945 la guerra è finita, è questo l’ “anno zero” per l’Italia, l’inizio di quella fase definita di
ricostruzione, in cui si gettano le fondamenta del nuovo stato.
Compiti gravosi attendono il nostro paese, occorre ricostruire l’economia e le infrastrutture, sanare la disoccupazione, favorire il reinserimento dei reduci e dei prigionieri, fondare il nuovo ordinamento politico, ricomporre le divisioni tra le varie aree regionali, per mesi alle prese con governi ed eserciti di occupazione differenti nel biennio 1943-1945, nonché le contrapposizioni tra ceti e classi sociali.
E le donne non stanno a guardare...
E le donne non stanno a guardare, l’esperienza della guerra le aveva viste protagoniste fuori dal
focolare domestico dove il fascismo le aveva relegate, hanno lavorato nei campi e nelle fabbriche al
posto dei loro uomini chiamati alle armi, hanno combattuto con i partigiani durante la Resistenza,
hanno preso parte agli scioperi nelle città del nord. Per loro si aprono nuove prospettive di vita e di lavoro.
ricostruzione che vede protagoniste le donne.
Una donna trasporta sul capo i mattoni recuperati tra le macerie della città distrutta dai bombardamenti. Nuova Cassino (Frosinone) 1945. (foto F. Patellani)
Nuovi soggetti sulla scena politica: la parola alle donne
In quel 1946, dopo il ventennio della dittatura fascista, si torna a votare. Le italiane, cittadine a
tutti gli effetti, per la prima volta votano e sono elette, esercitano finalmente quel diritto per il
quale le generazioni precedenti si erano battute senza successo.
Il voto alle donne era stato concesso il 1° febbraio del 1945. Settantaquattro anni erano trascorsi dalla
prima richiesta di estensione del diritto di voto depositata nel Parlamento del Regno Unito nel 1871.
Il 2 giugno del 1946, dunque, le italiane si recano alle urne per la prima volta – se si escludono le
amministrative del marzo-aprile che riguardano solo alcune regioni – per esprimere la propria volontà politica sul referendum monarchia o repubblica e per eleggere i membri dell’Assemblea Costituente.
Tra le curiosià dell’evento, segnaliamo l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera, intitolato "Senza rossetto nella cabina elettorale", con il quale si invitavano le donne a presentarsi presso il seggio senza rossetto alle labbra. La motivazione era così spiegata: "Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio”
Testimonianze di una giornata epocale per la storia italiana
“Lunga attesa davanti ai seggi. Sembra di essere tornate alle code per l’acqua, per i generi razionati...”
Anna Garofalo così fotografa quella giornata memorabile che ha aperto alle donne nuove
prospettive di partecipazione alla vita della nazione.
“Lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali. Sembra di essere tornate alle code per l’acqua,
per i generi razionati. Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo
mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo
le schede come biglietti d’amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne
timorose di stancarsi e molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che
nascono tra uomini e donne hanno un tono diverso, alla pari.”
Quel segno tracciato sulla scheda dava una sensazione di grande responsabilità e di libertà:
“Quanto al ’46 – sosteneva Anna Banti – e a quel che di “importante” per me, ci ho visto e ci
ho sentito, dove mai ravvisarlo se non in quel due giugno che, nella cabina di votazione, avevo il
cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi fra il segno della repubblica e quello della
monarchia?”
Emozioni e stati d’animo colti anche da Nilde Iotti
“Eravamo un po’ emozionate quel giorno, sentivamo tutta l’importanza del nostro atto e la
responsabilità che da esso derivava. Sentivamo la gioia di essere finalmente libere, come
italiane e come donne e quella scheda, su cui mani incerte o sicure tracciavano una croce, era
per noi un simbolo di democrazia, di libertà e di aspirazione finalmente realizzate.”
Quell’anno, dunque, è caratterizzato da una decisa visibilità femminile nella sfera pubblica e la
stampa indugia, quasi incredula, - anche per i tanti pregiudizi che ancora gravano e graveranno
sulle donne – su questa nuova presenza di casalinghe, suore, impiegate, operaie e tante contadine
ordinate e composte in fila davanti ai seggi elettorali.
L’ingresso delle donne elette a Montecitorio
Certo è che quel 25 giugno, quando tra le 15.20 e le 15.40, - come raccontano le cronache -
emozionate alcune, pienamente interpreti del ruolo altre, le ventuno elette varcano la soglia
di Montecitorio, segna un cambiamento significativo, la rottura di una secolare tradizione, secondo
la quale spetta agli uomini la gestione della sfera pubblica e perciò l’accesso alla rappresentanza
politica, mentre alle donne è assegnato il privato.
Enrico De Nicola entra a Montecitorio con alcune delle donne elette nell’Assemblea
Costituente: 21 su un totale di 556 deputati...
In quel 1946, l’esercizio da parte delle italiane del suffragio attivo e passivo rappresenta un
passaggio atteso da molte, ma l’opinione pubblica sembra scossa da quella nuova presenza e non
sempre il paese si mostra all’altezza della situazione. Permangono incertezze e timori anche tra
le stesse associazioni femminili che bloccano il rinnovamento culturale e dei costumi: molte
delle potenzialità insite in quel passaggio del 1946 rimasero inespresse e il diaframma tra sfera
pubblica e privata fu soltanto intaccato, ma non certo demolito.
Così si esprime Giulio Craiz sulle politiche promosse dalle varie associazioni femminili all’interno della società italiana del dopoguerra:
“ Il paese sembra attraversato dalla tensione fra due poli: da un lato l’attesa di profonde
traformazioni, dall’altro il crescente bisogno alla normalità che apra la via della ricostruzione,
dopo le immani distruzioni belliche. E’ una tensione che solo in parte contrappone ceti sociali
e individui: più spesso li attraversa e vive al loro interno.”
Così i giornali dell’epoca
L’indomani delle elezioni, un noto fotografo, Rocco Patellani, affidava al volto di una giovane
donna, capace di incarnare la mediterranea bellezza delle italiane, il messaggio: “È nata la Repubblica.”
Una posa evocativa, un’immagine largamente diffusa negli ultimi dieci anni. Un volto sorridente,
pieno di luce, incorniciato da capelli neri ondulati. È una giovane come tante, indossa un vestito
di cotone stampato di poche pretese, incorniciata dalla prima pagina di una delle più diffuse
testate, “Il Corriere della Sera”. La giovane donna bruna guarda fiduciosa in avanti, volge lo
sguardo al futuro, incarnando così le speranze riposte nel nuovo stato italiano. È questa però la
scelta di un artista, la Repubblica ha invece faticato a riconoscere alle donne la possibilità
di rappresentarla, ha marginalizzato la loro presenza nei luoghi decisionali della politica, nelle
istituzioni, nelle direzioni dei partiti politici, soggetti dominanti lo scenario politico, facendo così
della democrazia italiana una democrazia incompiuta.
L’indomani delle elezioni, un noto fotografo, Rocco Patellani, affidava al volto di una giovane <
donna, capace di incarnare la mediterranea bellezza delle italiane, il messaggio: <
“È nata la Repubblica.”
Si potrebbe concludere con le sagge parole pronunciate, nel 1881, da Anna Maria Mozzoni: “Se temeste che il suffragio delle donne spingesse a corsa vertiginosa il carro del progresso sulla via delle riforme sociali, calmatevi! Vi è chi provvede freni efficaci…”
Sicuramente, passi indietro sulla condizione femminile, che sembrava nel 1946 lanciata verso rapidi cambiamenti, sono venuti dalla cultura cattolica ben radicata nella nostra società rurale che faceva da secoli precise distinzioni funzionali tra uomo e donna.
L’Italia tra dinamismo e staticità
Anna Banti afferma… “erano giorni bellissimi quelli del ’46: la Costituzione che ne derivò nel
1948 permise alle donne di essere elette e non solo di eleggere.”
L’Italia si allineò così agli altri paesi europei: in Danimarca e nei paesi scandinavi le donne
avevano raggiunto lo stesso obbiettivo nel 1920, in Inghilterra nel 1928, negli Stati Uniti negli
anni 20, in Italia e in Francia solo nel ’46, chiaro retaggio anche della tradizione cattolica, che
relegava le donne a ruoli minori e subordinati all’uomo.
Ma il diritto di voto venne riconosciuto alle Italiane a denti stretti: vi furono sentimenti
contrapposti nel ’46 come si può ben vedere nel film di Dino Risi, Una vita difficile, del 1961,
con protagonista Alberto Sordi che, dopo il passaggio alla Repubblica, vuole ritornare a vivere
per recuperare anche il passato, un passato recente, quello della lotta partigiana, che aveva dato
una spinta alla trasformazione e al cambiamento molto più forte di quello che in realtà poi
avvenne. Se da una parte c’è voglia di cambiamento e di riscatto, dall’altra non tutti vogliono
ergersi sulle barricate per rivendicare soluzioni drastiche: c’è chi, come la protagonista
femminile del film, con realismo, si adegua ai compromessi per sopravvivere in un difficile
contesto economico di fame e povertà.
Nel ’46, l’Italia è un paese squilibrato, lo stesso risultato del referendum monarchia –repubblica
dimostra questa spaccatura.
È uno strano Paese quello dell’immediato dopoguerra, un Paese sospeso tra il dinamismo della
voglia di ricominciare e di ricostruire e la staticità di un’Italia povera e rurale che non lascia
intravedere niente di quello che sarà il futuro boom economico degli anni Sessanta.
Tra dinamismo...
... e staticità
Il dinamismo si espresse in quella prodigiosa ricostruzione, che non fu solo ricostruzione economica, voglia di vivere e partecipazione politica, ma fu anche desiderio di ristabilire una convivenza civile e di ripristinare la fisiologia dei comportamenti dopo la catastrofe morale dovuta alla guerra. Negli anni 1945 -1948, la politica ebbe una funzione formativa rilevante, ma la conquista del voto alle donne e di altri diritti fondamentali per una società libera e democratica sono legati purtroppo alla tragica esperienza dei due conflitti mondiali e della dittatura fascista.
“Dalle macerie della guerra la speranza di un’ Italia nuova”
Le spalle al passato...
Valmontone 1946. Mercato tra le maceria dei bombardamenti.
Foto F. Patellani
... lo sguardo al futuro.
Milano 1946. Lo sguardo di un bimbo proiettato verso il futuro di un’Italia finalmente libera e democratica.
Foto F. Patellani
“...Siamo donne, oltre le gambe c’è di più...
In quel lontano Giugno del 1946, incomincia il lungo e ancora incompiuto cammino delle donne italiane per i diritti, l’emancipazione sociale, la parità. Inizia, alla fine della seconda guerra mondiale, quella che molti hanno definito “la grande rivoluzione pacifica e moderna del nostro paese: la rivoluzione delle donne”.
Agosto 1946. Teatro Lirico di MilanoIl comico Enrico Macario passa in rassegna le ballerine della sua compagnia, schierate sulla
terrazza del Teatro Lirico. (foto F. Patellani)
Una rivoluzione che, cambiando la coscienza delle donne, ha cambiato il volto del nostro paese, gli
stili di vita, le leggi. Una rivoluzione lunga, non ancora conclusa: nonostante le donne di oggi siano
ricche di talenti e di forza, la società e la politica non sanno ancora avvalersene pienamente, gli
ostacoli non sono ancora rimossi.
Quelle 21 donne, elette nel 1946 nell’Assemblea Costituente, diedero finalmente voce e
rappresentanza alle donne italiane che avevano sofferto con i loro compagni la guerra, la dittatura
del fascismo e l’occupazione tedesca: tra loro Nilde Jotti, che sarà la prima donna italiana ad
occupare il posto di Presidente della Camera dei deputati nel 1979.
E la Costituzione, grazie a quella presenza femminile, parla al futuro, nomina diritti fondamentali
nella famiglia, nel lavoro, nell’accesso ai pubblici uffici (sono gli Articoli 3-29-37-48-51 ), anche se
permane una grande distanza tra la Costituzione formale e la Costituzione sostanziale. Basti pensare
che solo nel 1963, quindici anni dopo l’approvazione della Costituzione, le donne possono entrare
in Magistratura, e molto più recente è l’acquisizione del diritto di accesso all’esercito.
Ma in questi settant’anni i passi in avanti sono grandi e costanti: dalla parità salariale alla tutela
della maternità, dall’istituzione del divorzio nel 1974, fino al nuovo Diritto di Famiglia nel 1975,
quando la famiglia patriarcale fondata sul capo famiglia esce definitivamente dal Codice Civile
anche se non del tutto dalla vita quotidiana
Inizia il cammino della cittadinanza attiva, delle pari opportunità, ma soprattutto delle libertà
femminili nella vita sessuale e di coppia, nella scelta libera e responsabile della maternità. Grandi
sono le conquiste simboliche e legislative: come la legge 194, (1978) che riconosce nell’aborto non
un delitto, ma un diritto necessario a strappare alla clandestinità il dolore di migliaia di donne;
la legge sulla violenza sessuale che mobilitò per anni il movimento femminista e che vide la luce solo
nel 1996. E infine, solo nel 2002 si riesce ad approvare la modifica dell’art. 51 della Costituzione
per rendere effettivo quell’accesso ai pubblici uffici sancito nella nostra Carta Fondamentale. Le
donne rappresentano la maggioranza della popolazione, ma ancora soffrono per violenze e discriminazioni e
in molti ambiti sono ancora relegate a un ruolo minoritario. Tullia Zevi,
un’intellettuale che ha rivestito la carica di Presidente delle Comunità Ebraiche d’Italia, osservava
che “i diritti e le libertà delle minoranze rappresentano la spia della salute di una democrazia.
Finché le minoranze non saranno libere di essere se stesse, gli italiani non potranno dire di vivere
in democrazia” e l’Italia non potrà affermare di aver pienamente applicato la Costituzione voluta
dall’Assemblea votata il 2 giugno di settant‘anni fa.